i tuoi occhi

Il colore dei miei occhi era nei tuoi,

così si imbiondivano di giugno,

rosseggiavano nei tramonti,

avevano persino il rosa delle albe dopo il canto dell’allodola.

Il nero lo riservavano alla notte

e piccole luci s’accendevano ai lati delle pupille mai stanche di te.

Attendevano che ci fosse il rosso dei papaveri

e mostrare il tuo verde che fioriva.

Sentivano la vibrazione del desiderio nel blu che oscurava la luna

e, specchio dell’anima che vorrebbe ma non dice,

sceglievano il nocciola come colore che cela dietro ogni apparente durezza,

il dolce e l’agro dell’amore. 

(158) Hélène Grimaud: Bach – Chaconne from Partita No. 2 in D minor, BWV 1004 (arr. Ferruccio Busoni) – YouTube

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scritture

Ci si convince, ma non è vero.
Ossia, lo è per noi e per quietare l’inutile che sale alla gola.
C’è chi è bravo in questo, chi in quest’altro e sembra basti.
È per poco, ma sembra basti.
Usciamo col dubbio,
con parapioggia colorati e insufficienti quando servono davvero.
Ci si bagna e la verità appare:
era nell’indifferenza,
nel sapere che ogni cosa ha un limite adeguato
e si è scelto di mettere l’asticella troppo in alto. Mentre l’indifferente non se ne cura.
E neppure salta.
Mi dicono, ma l’ho visto per davvero, che camminava,
pioveva forte, l’acqua correva lungo le ali del cappello,
gli colava dentro la camicia, e lui cantava,
sommessamente cantava come fanno i sovrapensiero
e non accelerava il passo.
Mi è sembrato sorridesse
ed io che non invidio, l’ho amato
in quella sua vita resa capolavoro.

c’è del presente e molto altro nel tempo

Di questo tempo asintotico al presente,
sghembo ad ogni racconto che non sia tiepido lamento
emerge il narrare di sé o d’altro,
non importa,
così come prima, di che, di cosa,
forse si parlerà di gatti, di cieli stellati
di malinconie sconosciute a chi non scrive,
di cos’è il giorno e la notte
del tempo che scorre a lato
o non scorre come vorremmo e per salvezza ci si rifugia nel ricordo
d’un prima che è accaduto ma è come non lo fosse.
Così si resta nudi di fronte al presente ch’era idolatrato
e ora che davvero solo tale si comprende la finzione:
non era presente quello di prima,
era uno schizzo sulla tela, un’abitudine mai investigata,
l’imposizione d’un despota senza nome,
illusionista lui e illusi noi,
non era il presente, era una sospensione d’un futuro,
un gioco d’equilibrismo senza il senso del ridicolo,
perché cieco di ciò che stava attorno,
ed oggi che vediamo, vorremmo che un sogno ci portasse oltre.

sulla riva del tempo

Semino piante odorose, verdi medicine,
fiori selvaggi e gentili,
arbusti che sognano, vorrebbero essere alberi grandi nella pianura
per vedere oltre le cose.
L’educazione della natura si fa lezione di vita
e attendo:
in qualche parte del mondo s’aggregherà il futuro,
quello in cui potrò immergere le mani e il pensiero.
Trasformare il ricordo in passato.
Sarà un piccolo assembramento di cose e di pensieri prima sparsi,
messi assieme per il caso che non è poi mai tale e da una fiamma nascerà la luce.
Ho il corpo, l’aria , il sole,
ma anche della notte il fresco.
Ho delle cose, molti libri e musica da udire,
ma ciò che fa differenza sono gli affetti
che colmano il mio tempo.
Si versano da una brocca nel mio calice d’assetato,
e bevo quel tempo così diverso
che ora scorre a lato.
Come ci fossimo seduti sulla riva
in una giornata già piena di primavera,
ad attendere.
Che cosa?
Che ci sia del nuovo che ci faccia immergere nel flusso,
quella fiamma che diventi luce.
E direzione a cui affidare il corpo e del vivere,  l’intuito.
E intanto, con pazienza, attendiamo,
mentre dietro noi c’è l’ombra d’alberi cresciuti, l’erba così alta e morbida,
e fiori e profumi troppo a lungo scordati
a catturare il volo delle api.
Forse per quello abbiamo seminato.
E nel chiarore che filtra tra le foglie e l’acqua,
con devota voce,
chiamare a raccolta l’elenco delle cose
mai fatte e desiderate
che ora attendono,
loro, noi, il nostro giungere
a scoprire la bellezza, finalmente conquistata.
Abbiamo il corpo, l’aria, la luce e terra ,
sabbia, acqua, rocce da percorrere
e mai come ora, è stata forte l’attesa
che il mondo ci prenda,
che l’uomo e le sue bellezze ci prendano,
per questo seminare piccoli fiori,
è allargare il cuore,
dare agli occhi e alla mente il suo ruolo, finalmente,
e allora nulla sarà come prima,
ma più bello, mai visto, mai vissuto.
Così si spegne l’abitudine
e nasce ora la libertà
di essere differenti per davvero.

oltre l’inverno, la primavera, le stagioni

Nel mattino lasciami vedere il tempo che rallenta e del suo procedere non darmi peso,
solleva la tua mano che mi piega il capo
trasformarla in carezza.
Ricordami che della nostra bellezza dobbiamo tener cura
darle il nutrimento che ci fa felici.
Rendimi sereno nelle lunghe giornate ricche di nervosi gesti
e aiutami a guardare dentro e fuori me,
le ragioni che mi rendono infelice.
Dammi il senso di ciò che sento come a chi è stanco e rischia d’affogare,
se non trova il filo che lo tiene assieme.
È accaduto ogni volta che infuriava la tempesta
e solo scartando a lato
la realtà s’è scomposta in piccoli frammenti,
ma ognuno rifletteva il cielo o un pezzo dell’attorno
prima occultato nel rumore:
così s’è ricomposto il mondo.

Reagisco con fastidio, nei miei gesti non c’é serenità,
accumulo cose che tacciono ogni mio fallimento.

Torna all’essenza, a voce bassa usa la parola,
con dolcezza suggile il nutrire, ridona ad essa la sua perfetta forma.
A questo serve raccontare la bellezza,
vista oltre l’evidenza, ora aiuta a capire
che l’essere sani è dentro noi
e ogni gesto d’amore s’intinge d’innocenza.
Solo allora non giudicherà la mente
e riconoscerà in sé la bellezza libera d’entrare,
nostra, finalmente, per davvero.

ouverture

‌Ho lasciato entrare la sera, i mobili si sono scuriti,
le cose hanno preso la confidenza del sussurro.
Così un bisbiglio è diventato racconto
e gli specchi hanno mostrato le brune macchie del tempo.
In quell’intravvedere c’era la folla ch’era passata,
ciò che era urgente ed è diventato ricordo.
Dei visi si sono scritti sul mio viso,
altri sono rimasti prigionieri dei fatti, delle sensazioni che furono sospese.
Ora chiedevano di proseguire vita e destino,
reclamavano i momenti che il cuore a loro doveva.
La finestra aperta risucchiava la luce,
leggevo, anche se gli occhi seguivano l’ombra:
da qualche parte il destino era proseguito,
aveva dato senso a un rifiuto
oppure era tornato a percorrere strade già usate.
Ora la notte rendeva morbide le cose,
avvolgeva i ricordi con l’attenzione delle commesse a natale,
e la carta ben tesa mostrava il colore cilestrino
nella misericordia d’essere stato.
Danzava il pensiero, s’abbandonava a onde di carezze gentili,
mentre un sogno già gocciolava sul limitare del giorno.

una selva di cuori spezzati

Della giovinezza una costante rimane
una selva di cuori spezzati,
di cocci mostrati impudichi al sole,
camicie azzurro pallido e candore sotto tailleur finto Chanel,
e polo e maglioni e jeans ed eskimo
e sciarpe d’autunno multicolori
e abbronzature salse di pelle e di mare.
E ancora una selva di cuori spezzati,
ricomposti, trepidanti, incollati.
Appesi ad un ramo, caduti, risorti, orgogliosamente svettanti,
graffianti nel cielo
e poi accoccolati, paurosi, dall’azzardo turbati,
ma dolcissimi
finché una canzone li avvolge
e cantando a squarciagola, rimangono teneri, ridenti e stonati.

bora a settembre

La bora ha reso farfalla, la foglia
e a lungo l’ha fatta volare
in spirali d’aria, prima d’adagiarla,
barchetta per occhi di bimbo,
sull’acqua,
e lì corre
forse d’una attenzione, felice.

zelig

Come i buoni romanzi, letti e riletti,

con le parole da ripetere lente

nel bisogno d’entrare dentro davvero,

altrimenti non s’aprono, e si perde il profumo

geloso, e goloso degli anfratti di senso.

Così le mani lavate due volte:

la prima per lo sporco, la seconda per l’innocenza.

Non sono stato io,

non sono stato. 

Si confondono i visi, mentre cala la luce

prima le rughe, poi le bocche

e senza rumore, i sorrisi,

camminando nell’aria dispersi.

A chi era destinata un piega, un bacio,

chi è ancora in attesa del suono d’una emozione,

capita, disciolta e bevuta.

È l’ora dell’aperitivo, un televisore parla per persona interposta,

sono notizie eppure fan male,

non come a chi le ha generate,

non come a chi è davvero coinvolto,

ma tutti siamo per un attimo, innocenti,

poi confusi, sovrapposti, indecenti

e ci scambieremo l’uno per l’altro.

Così unici

e così poco necessari per molti.

inchiostri che sbiadiscono

 

Poi, ma solo poi, mi sono accorto che gli inchiostri sbiadivano alla carezza della luce,
non solo i miei così cercati,
oppure pensati a prolungare l’unghia, il polpastrello, il palmo
mentre seguivano un pensiero che accarezzava,
raccoglieva, stringeva
e lo rafforzava, lo mutava in desiderio e voglia
cercando ciò, che il linguaggio arcano e potente del corpo, diceva.
Per questo gli inchiostri ricordano più del dito, del palmo e del corpo
e sbiadiscono in poco sufficienti parole.
Conservano, seminano, disperdono pulviscoli di pensiero,
frammenti e cocci di vetro
di un sentire che balugina ma non è mai lieve.
E se sbiadisce, il sentire, è perché altrove, in un multiverso che attende invano,
qualcosa si è compiuto -e compie- mentre qui diventa traccia.
E poi suono di polline nell’aria.