sempre i chierici tradiscono

Tiepidume d’intelletto e fuga
come il calor d’alcova di domande irto,
ma sol dopo il piacere ottenuto e consumato.
Non c’è forse molta superbia nel pensare,
nella convinzione d’esser soli nel suo adeguato farsi,
nel sentire il momento e il suo lavorare in punta di coltello.
Consci di momenti che saranno storia o ricordo,
poco importa, e per questo inani
o persi nel caldo futile del bastarsi,
della propria ragione che non ascolta,
non tace, non parla abbastanza per paura di non esser compresa,
e si chiude,
in attesa che qualcuno, o qualcosa, liberi,
lo spirito dal timore.
Mentre è paura di fare ciò che è giusto, solo paura.

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ciò che tu non sai

Non mi stancherei di guardarti,
già nel sonno che arrende il corpo,
poi al mattino,
confuso col tuo stupore, griderei la gioia alla nuda pelle che si riconosce.
Nel pomeriggio, quando la luce posa,
sul corpo, perdendo l’arroganza del dire
nella sfrontata carezza,
indolente, precipitosa, dolce e indagatrice.
Così perderei lo sguardo, mio mistero,
nella tensione d’un desiderio che s’avvolge di te, in te.

le sei e mezza della sera

Le sei e mezza, l’ora in cui non bisogna chiedere troppo al caso,
e lasciare che la sera accada con il suo carico di malinconie verticali,
acuzie che s’inerpicano nella notte plastica,
a generare il caos dentro sé.
È ben più facile l’ordine,
e il compensare anziché sottrarre il tempo
per generare vuoto da riempire di nuovo, lo sappiamo.
E poi su tutto spargere silenzio e rumore bianco
come fosse sale per tacitare il cuore,
con un bruciore che non è dolore,
non ancora, almeno
a zittire Il non fatto, il perduto, lo scordato recente e quello antico
che emerge come un conàto di passato,
di delusione,
di speranza prima smussata e poi spezzata,
ed ora cos’è questo brulicare? Un nulla che s’avvolge,
molla carica che minaccia e non lascia spazio al nuovo.
Un nulla che non è natura,
obesa di meraviglie e sorprese,
che rasserena e mette un dito verticale sulle tue labbra
intimando la notte, il sonno, i sogni e il risveglio poi, nel giorno nuovo.

malinconia

Ho avuto paura della mia malinconia
tirandola come un elastico,
sovrapponendola a orizzonti e linee di battigia,
ho temuto si rompesse percuotendo il viso,
che mi lasciasse ancora più solo davanti alla speranza,
quella che dapprincipio non ammette fallimenti,
che impedisce di cogliere il bello transitorio d’un colore,
d’una forma, un suono,
d’un particolare nascosto nel cuore d’un meccanismo
d’orologio che non scandisce,
batte silente il tempo che non conta.
Di questa malinconia ho fatto lente,
che esposta al sole incendia,
ingrandisce le parole e i segni,
perde il senso e tocca qualcosa che neppure ha nome,
ma si comporta bene quando le chiedo di star queta,
e silente perché altro c’è da fare.

a lungo starai in me

È una faccenda tra te e me,
e ciascuno ha le sue ragioni,
cosa strana se ci pensi,
perché il mio corpo nel tuo si ritrova
e forse lo stesso a te accade.
È questione di pelle
e di sensi, li abbiamo chiamato tra i sussurri
e loro hanno risposto,
che dovremmo adesso dir loro,
che l’ora è passata?
che le congiunzioni astrali non concedono?
Oppure ascoltare la voglia che cresce,
che inarca la schiena
e sparge brividi ovunque.
Non è ora, forse hai ragione
ma intanto il desiderio scuote il respiro,
fa scorrere il sangue veloce
e forte chiama.
Per questo è una faccenda tra noi due
e tu puoi fare quello che vuoi,
ma se mi raggiungi nel sentire
starai con me.
Oh sì, a lungo starai in me.

parlo molto di te

Parlo molto di te,
tra me e me,
ti penso e m’allungo,
sono le dita, a sfiorare
Il tuo corpo che vibra
e flutta i suoi succhi
e cresce e nasconde in anfratti il piacere.

Ho bisogno di toccarti ad occhi chiusi,
sentire la tua pelle che s’arriccia
in un brivido inatteso,
ho bisogno del tuo tempo che è in me,
della tua voce,
eccitata dalle parole che contengono
molto meno di ciò che sento.

Ho bisogno del brivido
che rompe il fiato
e fa riscoprire il desiderio,
sentendo che t’avvolge,
mentre non s’acquieta.

da quanto ci conosciamo

Da quanto ci conosciamo?
un tempo eravamo foglie che si toccavano,
vento, occasione dello stormire,
ricordo il sapore dolce dei tuoi baci,
la pelle sulla mia, le parole come radici,
Attendevo la notte per sentirti
perché col buio la solitudine sussurra,
diventa tenera come carne,
si mescola, cerca,
dice e lascia completare le parole
con labbra semiaperte,
immagina, tocca e apre ciò che si schiude.
Da quanto ci conosciamo
senza aggiungere né togliere,
fermi, in attesa senz’attendere.
Tutto muta e scorre,
a volte vorrei che la mia mano, la bocca,
e tutto il corpo seguisse il tuo scivolar via
in un tenere che non muta
e ricorda.

verità che presto scadono

Come vedi, amica mia, c’è sempre una ragione al dispiacere,
molte più che al fugace piacere,
ci si dovrebbe accontentare delle tregue,
oppure imparare grammatiche dove l’errore abbia più pazienza.
E invece è tutto così veloce che l’assoluto non ha tempo né coscienza di sé
e diventa relativo.
Questa relatività ci allontana, c’impedisce l’abbraccio
e il lasciare la guancia sulla spalla dell’altro,
per riposare in un luogo sicuro,
basterebbe un momento che continua una vita
e così sembrerebbe eterno.
Come potrei volerti male se tu mi vuoi bene,
è lo scambio semplice che s’impara da bimbi
e s’applica in ogni contrasto, almeno per un po’,
ma poi ci si tradisce troppo spesso
per puntigliosità o stanchezza generata altrove, non per malavoglia,
è così che il deserto si mangia il cuore
e gli occhi non sanno più cosa afferrare.

mi penso sciupato

Così ti penso, sciupata un poco dentro,
il viso è bello, il corpo ancora parla lieto,
è il sorriso che s’è spento,
la luce sbarazzina se n’è andata,
la parola sussurrata
nell’incontro, un tempo subito volata, ora si trattiene,
cerca alternative meno leggere,
dense di significato per il tuo cuore appesantito.

L’anello è trattenuto al dito, distratta lo rigiri,
è ancora un palloncino che volerebbe a perdersi,
giocando tra le nubi,
guardi alto col pensiero,
gli occhi hanno ancora il sole dentro.

Così mi penso, un po’ da te sciupato,
inzuppato nei caffè di notti sterminate,
tolto all’alba,
rimesso sulla strada affianco,
prima d’ aver capito, già ammaestrato,
ma grato, oltremodo grato,
dello scoprire, nel decadere, un senso
il mio anzitutto,

ritrovato nei sogni squagliati all’alba,
nelle contorte decisioni,
nelle vigliaccherie d’intelligenze fini,
era l’esserci quel tanto che tu m’hai regalato.

In fondo sciuparmi non m’è spiaciuto ma è accaduto altrove,
tu che avevi un dono
chissà dove l’avrai portato.

tu sai

Tu sai cos’è il profumo della nostalgia
lo sai nell’ora incerta
in cui la luce cede al velluto l’evidenza,
alla forza del sogno la realtà.
Tu sai che le pietre ricordano,
conosci il profumo della carta,
il sottile erotismo delle parole,
ascolti l’inquietudine del giorno.
E se compi,
il gesto netto del direttore d’orchestra,
dell’inchiostro che decide,
del pensiero che s’arresta,
la musica continua,
la pagina attende.
Tu tornerai come credi
perché tu sei
e t’attendo.